martedì 10 gennaio 2012

# 18 - La Sonata della volpe in Do Minore.




Colonna sonora: Christof Eschenbach - Sonata in Do Maggiore - Allegro Moderato (consigliamo l'ascolto durante la lettura).



"C'era una volta un re che aveva nel suo frutteto un albero di mele, sul quale tutti gli anni spuntava una mela d'oro; ma, quando veniva l'epoca giusta per raccoglierla, essa scompariva senza che nessuno potesse dire che l'avesse rubata."


Niente, e niente di più, Michel era uscito elegantemente dal ristorante, pulendosi le labbra con il tovagliolo come un vero signore. 

Ad essere sincera sapevo bene di esser furba, ma fino a quel punto non mi ero mai avventurata. Avevo avuto clienti molto più complicati di Michel, ma ero sempre riuscita a mantenere un alto profilo. Un'informatrice perbene, questo ero. Un dolce viso strizzato in un elegante tailleur nero. Le gambe nude, perché mi avevano insegnato così, dicevano sempre 'le belle gambe sono un'ottima distrazione e ne ricaverete soltanto, a mostrarle con disinvoltura'. 

Disinvolta e attenta, maniacale in ogni dettaglio, curata alla perfezione, professionista a tutti gli effetti. Mi era già capitato di lavorare in Francia. 
Parigi era una città sofisticata, ed era questo che dovevo essere, sofisticata. Se lavoravo a Londra dovevo adattarmi alla sua frenesia, passare inosservata. Se lavoravo a Los Angeles dovevo azzardare, se lavoravo a Parigi dovevo essere una bella donna in viaggio d'affari, non indossare troppo profumo, alloggiare in un albergo in centro.

Stavolta alloggiavo al Ritz, in Place Vendôme. Michel mi aveva procurato la stanza e io gli avevo procurato quel che voleva: informazioni. Era il mio lavoro, e lo facevo bene. 

Quella sera però, qualcosa andò storto, e non poteva essere altrimenti. 
Prima o poi, in qualsiasi sfavillante e portentosa carriera, arriva un momento in cui qualcosa va storto, e quel momento, per me, arrivò a Parigi. Se dicessi che me l'aspettavo, mentirei. 
Un insignificante errore, un rossetto abbandonato nella stanza sbagliata, una telefonata di troppo, un gesto nervoso davanti a qualcuno, e tutto va a rotoli. 

Ci vuole poco per sbagliare. Mi ripetevano anche questo. Dicevano 'dovrete preoccuparvi persino della piega del vostro abito, del colore dei vostri occhiali da sole, perché se il vestito risulta sgualcito capiranno che non siete seri, se i vostri occhiali sono troppo chiari vi vedranno mentre li osserverete. Non fingete di telefonare a qualcuno per non farvi notare, se la telefonata non sembrerà perfettamente naturale, se il tono di voce sarà troppo alto o troppo basso, loro lo sapranno. Non ordinate alcolici, vi annebbieranno la testa, restate lucidi. Non indossate orologi: se li guarderete troppo spesso, loro si renderanno conto che li state aspettando.'

Sbagliai, quella volta, e mentre Michel camminava fuori dal ristorante, e io bevevo il mio caffè,  pensai che quello sbaglio, in fin dei conti, era uno sbaglio ammissibile. Ma Michel ci teneva a me. Avevamo già lavorato insieme, e lui decise che voleva tirarmi fuori dai guai, darmi una mano.

Andandosene mi disse, nel gesto di pulirsi le labbra con il tovagliolo di lino: 'lui arriverà tra poco. Digli chi sei, digli cosa fai. Digli che sai dove sono i diamanti, e che lo aiuterai a prenderseli. Per far sì che lui ti creda, digli che lo guiderai in ogni suo spostamento, così lui potrà accertarsi della tua lealtà. Potrà fidarsi di te. Digli che lo porterai da D'or, che potrà vederlo di persona e fare quel che deve. Digli che altri prima di lui non ti hanno creduto, che non hanno voluto fidarsi di te, e che loro i diamanti non li vedranno mai, ma lui sì. Una volta che avrai finito, una volta che lui avrà i diamanti, digli che può comunicare il tuo nominativo a quelli dell'Associazione. Digli che deve farlo, che deve fidarsi di te. Lui si fiderà di te e allora vorrà portarti da loro. A quel punto potrai tornare a casa, loro te lo lasceranno fare, e ti daranno quel che vuoi. Sarai finalmente libera di tornare alla tua vita di tutti i giorni.'


Se volevo cavarmela, non potevo fare altro se non attenermi alle sue indicazioni. Per troppo tempo ero stata costretta a fare quel lavoro, e per quanto lo svolgessi in modo impeccabile, si trattava pur sempre di una condizione dalla quale dovevo e volevo liberarmi al più presto.
Il mio tempo era terminato, e quell'errore con Michel mi sarebbe costato la vita, se non avessi fatto come diceva. 

Aspettai per qualche minuto, non saprei dire quanto, non portavo l'orologio. Poi Louis entrò nel ristorante e si sedette di fronte a me. Gli dissi che sapevo dov'erano i diamanti, e che l'avrei portato a prenderli. Feci tutto quel che Michel mi aveva ordinato. 
Portai Louis da D'Or, a riprendersi le pietre preziose. Seguii il piano alla perfezione. Ma Louis era diverso. Non era come gli altri due prima di lui. Era come me intrappolato in una condizione. Doveva riprendersi quei diamanti per conto di qualcun altro. E non poteva deluderlo. Ma intorno a lui risplendeva un'aura diversa. Era uno dei buoni. E io lo capii solo alla fine, quando gli dissi di portarmi dagli altri, di consegnarmi a loro. 

Lui non volle farlo. Mi disse che si fidava di me, e che non c'era bisogno di portarmi da loro. Che poteva finire lì, che potevo andarmene, che avevo fatto il mio lavoro, che l'avevo aiutato e per questo mi era grato. La mia sorpresa ben presto si trasformò in paura. Gli dissi di farlo e basta, che era giusto che mi consegnasse agli altri, che doveva fare quel che doveva senza preoccuparsi di me. 

Lui non lo fece. Mi disse che in quel breve periodo in cui eravamo stati insieme, aveva visto in me qualcosa di più. Non ero un'informatrice. Ero una donna e avevo paura. Disse che si fidava ciecamente di me, ma se mi avesse portata da loro, loro non avrebbero esitato neanche un istante, mi avrebbero uccisa.

Allora gli dissi che in quel caso sarebbe stato lui, avrebbe dovuto uccidermi. Non potevo restare in giro, dopo quel che avevo fatto. Passare l'informazione mi aveva resa vulnerabile. 'Uccidimi', gli dissi. 'Devi fidarti di me. Fallo e basta.'

Lui invece mi portò nella sua stanza d'albergo. 
Ero convinta che sarei riuscita ad andare da loro, a farmici portare, dopo quella notte. Che Louis si sarebbe fidato di me e che non avrebbe avuto il coraggio di fare il lavoro sporco, che l'avrebbe lasciato fare agli altri, che se gli avessi detto di più lui mi avrebbe dato ascolto.

Ma non lo fece. E quella fu la vera morte. Morii tra le sue braccia e tra le sue lenzuola, quando capii che da quel momento in poi non sarei mai stata libera. Fuggire sarebbe stata la mia unica prerogativa. Inaspettatamente quell'uomo si fidava di me, lo faceva davvero. Non sospettò nemmeno per un secondo del mio bluff. Si innamorò di me e io di lui. 
L'errore che mi costò la libertà. Non arrivai mai dagli altri, non mi diedero mai la mia liquidazione. Non scoprii mai dove trovarli e per quanto desiderassi divincolarmi dalla mia condizione, le catene che fasciavano i miei polsi ora sembravano più leggere. Catene di un altro tipo, ma pur sempre catene.

Un finale diverso e sbagliato. Ma pur sempre incantevole, nella sua crudeltà. 

Io, prigioniera di una maschera, per tutta la vita. Da quella notte in poi. 

"[...] La volpe, che aveva seguito il principe fin lì, quando fu sulla porta del palazzo reale, si fermò e scongiurò il giovane di tagliarle la testa e la coda con un sol colpo di spada. - Come potrei fare una cosa simile? - disse il principe, assai stupito da quella richiesta. - A te devo se sono riuscito a impadronirmi dell'uccello d'oro e se sono ancora in vita. Mi credi dunque così sconoscente? - . - Appunto per i servizi che ti ho reso devi farmi quel che ti ho chiesto - pregò la volpe con le lagrime agli occhi. - Soltanto così potrai dimostrarmi la tua riconoscenza."

- da una fiaba Scandinava, una fiaba diversa, con un finale diverso, ma pur sempre incantevole, nella sua crudeltà. (Per leggere il racconto completo dal quale Ju ha preso spunto, visitate la pagina extra)

 

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